Problemi tra capo e dipendenti. Quando è lecito il licenziamento?

Problemi e tensioni tra capo e dipendenti sul posto di lavoro sono una realtà nota a molti. Ecco alcuni casi in cui il licenziamento è (o non è) legittimo.

Problemi sul posto di lavoro, chi non ne ha? Capo e dipendenti finiscono spesso per avere tensioni e «scambi di opinione» a volte anche piuttosto accesi. Un po’ per il difficile rapporto superiore-sottoposto, un po’ per la quantità di ore che si trascorrono a stretto contatto, le relazioni tra datore di lavoro e dipendenti sono sempre una specie di campo minato, in cui il licenziamento è sempre dietro l’angolo.

Le cause per un licenziamento possono essere diverse: da assenze ingiustificate o troppo numerose, al rifiuto di svolgere un determinato incarico, fino ad arrivare alle liti con il proprio superiore. Ma come è evidenziato dalla dicitura stessa per il provvedimento, il licenziamento deve sempre avere una «giusta causa».

Quali sono allora i casi in cui il licenziamento è legittimo? Ecco alcuni esempi per chiarire la situazione e per sapersi tutelare in caso di necessità, che tu sia un «capo» o un dipendente.

Licenziamento: demansionamento e rifiuto del dipendente

Se il datore di lavoro mette in atto un demansionamento, affidando a un dipendente dei compiti inferiori rispetto a quelli previsti da contratto, il lavoratore in questione può rifiutare purché il suo comportamento sia «proporzionato e conforme a buona fede». In tal caso il rifiuto di svolgere l’attività lavorativa è legittimo e non si può venire licenziati.

Se invece al rifiuto si accompagnano atteggiamenti sprezzanti, come uso di parole ingiuriose o occupazione di spazi aziendali, il licenziamento è giustificato. Stesso discorso se poi il dipendente si presenta ugualmente a lavoro, poiché in tal modo rinuncia all’eccezione di inadempimento contrattuale nei confronti del datore ed è quindi obbligato a svolgere la mansione assegnatagli.

Licenziamento: lite tra capo e dipendente

Litigare con il capo non sempre porta al licenziamento. Tutto dipende infatti dal motivo della discussione e dal tipo di atteggiamento assunto da entrambe le parti in causa. La lite deve essere caratterizzata da elementi di una certa gravità per rendere possibile un licenziamento per giusta causa.

Se ad esempio un superiore rimprovera un dipendente in modo «eccessivo», quest’ultimo può reagire entro certi limiti. La cosa importante, infatti, è che non si verifichino né un inadempimento di tale gravità da minare la fiducia del datore di lavoro nei confronti del dipendente, né una grave insubordinazione.

Licenziamento: troppe assenze del lavoratore

Un dipendente che si assenta dal lavoro in modo ingiustificato oppure superando il numero di giorni di malattia concessigli per contratto è, ovviamente, passibile di licenziamento. Ciò non è vero, però, soltanto nel caso in cui sia stato lo stesso datore di lavoro a tollerare per troppo tempo tali assenze.

In caso di assenze del lavoratore che superino il limite del periodo di comporto, è fondamentale la tempestività del diritto di recesso da parte del datore di lavoro. In caso di un licenziamento tardivo rispetto al momento della maturazione delle assenze il provvedimento diventa quindi inapplicabile.

Licenziamento: assenze per cure riabilitative

Un lavoratore tossicodipendente che si assenta per un certo periodo dal lavoro per sottoporsi a delle cure riabilitative non può essere licenziato. In tal caso, infatti, il periodo dedicato al trattamento riabilitativo deve essere considerato, dal punto di vista normativo, economico e previdenziale, come aspettativa non retribuita.

I lavoratori tossicodipendenti hanno quindi diritto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo necessario a sottoporsi alle terapie riabilitative. Questo perché le assenze riconducibili alla permanenza in un centro di cura per la tossicodipendenza
non si possono definire «ingiustificate» e pertanto non possono essere causa di un licenziamento.

Risarcimento per mobbing: non vale se il capo è burbero per natura

Molto frequenti negli ultimi anni sono state le denunce per mobbing, ovvero atti violenti e persecutori operati da un superiore (o un collega) nei confronti di un lavoratore. Nel caso in cui il mobbing si sia realmente verificato, infatti, il dipendente ha diritto ad un risarcimento economico.

Le condizioni necessarie per il mobbing, però, vengono meno se il proprio datore di lavoro è una persona notoriamente scontrosa e che riserva un atteggiamento ugualmente «aggressivo» a tutti i dipendenti. In tal caso infatti l’aspetto «violento» non è destinato volontariamente verso una sola persona a fini vessatori, ma fa parte della natura stessa del datore di lavoro.