Report: dopo Moncler e Prada tocca a Gucci che sfrutta gli artigiani e i lavoratori cinesi. Il Lusso che uccide il Made in Italy

Report si scaglia contro Gucci. Dopo Moncler e Prada, un’altra azienda del Lusso mette in pratica un «sistema poco ortodosso» che, pur fregiandosi del «Made in Italy», sfrutta manodopera straniera e riduce in miseria gli artigiani italiani. Ecco tutto ciò che c’è da sapere

Report torna a indagare sulle aziende del Lusso. Dopo Moncler e Prada, a finire nel mirino della trasmissione televisiva condotta da Milena Gabanelli è Gucci, società ormai a tutti gli effetti francese (gruppo Kering) che continua a fregiarsi però del marchio Made in Italy per ottenere profitti da capogiro.

Un universo, quello di cui vi stiamo parlando, che appare quanto mai malato. Più ci si addentra nel modus operandi di questi grandi brand infatti, più si scoprono misfatti, abusi e ingiustizie.

Tra chi delocalizza, chi viene accusato di maltrattamenti sugli animali e chi sfrutta artigiani italiani e manodopera cinese, ce n’è davvero per tutti i gusti. E a pagarne le conseguenze non sono solo i consumatori, che acquistano (a prezzi astronomici) fidandosi del celeberrimo "Made in Italy" e ritrovandosi invece nell’armadio borse, scarpe, cappotti, ecc. prodotti nell’est Europa e confezionati da dipendenti asiatici, ma soprattutto gli artigiani e i lavoratori italiani, ridotti in miseria e estromessi da quel settore manifatturiero che un tempo trainava l’economia italiana.

Report: Gucci e gli artigiani
Gucci è una delle case di moda più famose del mondo. Fondata a Firenze da Guccio Gucci nel 1921, alcuni anni fa è diventata una divisione del gruppo francese Kering di Francois Pinault, principale competitor di un altro famosissimo marchio: Luois Vuitton.

Pur essendo divenuta a tutti gli effetti francese, Gucci ha continuato a produrre in Italia, e in particolare in Toscana, contribuendo a esaltare la fama del Made in Italy. L’azienda si è inoltre dotata di una certificazione SA8000 che garantisce controlli, rispetto delle regole,sicurezza, ecc.

In teoria dunque, tutto bello e perfetto. In pratica però il "sistema Gucci" nasconde più di uno scheletro nell’armadio.

A denunciare ai microfoni di Report ciò che avviene nella realtà, è un artigiano, Aroldo Guidotti, che lavora come subfornitore della maison transalpina e che si occupa in particolare dell’assemblaggio e della produzione di borse.

Per ogni prodotto, l’artigiano toscano riceve 24 euro a fronte di un valore reale di 30 euro (circa il 30% in meno di quanto dovuto dunque). Soldi che non bastano, come testimoniano altri produttori, neanche a coprire le spese:

non riesci a coprire poi tutto il resto delle spese. Perché se io gli faccio il montaggio e Gucci per il montaggio considera, mettiamo, 30 euro, quelle 30 euro devono finire a me, perché sono io fo il montaggio, non che mi devono veni a fini 15 e 15 devono rimanere in tasca a loro.

A questo punto, ai proprietari di queste piccole aziende artigianali rimane solo una soluzione: licenziare o cassaintegrare gli operai italiani e assumere, de facto sfruttandoli, lavoratori cinesi che costano di meno, producono di più e non hanno praticamente alcun diritto.

Gucci e i lavoratori cinesi

Il sistema, che manda a casa i dipendenti italiani sostituendoli con quelli di nazionalità cinese, che sono assunti part-time ma lavorano il doppio, a volte il triplo delle ore. Un’evasione che alleggerisce il costo della manodopera che grava sulle imprese del manifatturiero. Questo signore di nazionalità cinese è il socio occulto dell’artigiano italiano.

Queste le parole pronunciate da Stefania Giannini nel corso del servizio. Per il Fisco, per l’INPS, per gli ispettori del Lavoro e per Gucci (che dovrebbe verificare) questi gli operai cinesi lavorano 4 ore al giorno, nella realtà sono 14-16, uno sfruttamento in piena regola che implica anche un’alta dose di evasione fiscale.

Ma c’è di più: perché se Gucci si fregia del Made in Italy, parla di accessori prodotti secondo pratiche “tramandatasi di generazione in generazione” e confezionati da artigiani italiani, viene da chiedersi, come sottolinea la giornalista, come si concilino tradizione italica e manodopera straniera sottopagata.

La tanto celebrata certificazione SA8000 (Social Accountability), appare dunque solo uno specchietto per le allodole. La produzione avviene in Italia, i proprietari delle aziende fornitrici sono italiane, per il resto funziona tutto come se questi prodotti venissero confezionati ad Hong Kong. E che il "Made in Italy vada a farsi benedire.

Botta e risposta Gucci - Gabanelli
Come da costume, poche ore fa è prontamente arrivata la replica di Guccii che «si dissocia nel modo più assoluto» dai contenuti e dalla forma del servizio andato in onda su Report e accusa la trasmissione di aver adoperato:

«Telecamere nascoste o utilizzate in maniera inappropriata, solo in aziende selezionate ad arte da Report (3 laboratori su 576) non sono testimonianza della realtà Gucci»,

Poi, la maison francese si difende:

«Gucci ribadisce fortemente la correttezza del proprio operato impegnandosi a rendere sempre più efficaci le azioni conseguenti alle ispezioni, che saranno sempre più numerose. La signora Gabanelli non ha mai posto a Gucci alcuna domanda pertinente su quanto da cinque mesi stava girando».

Ma Milena Gabanelli, combattiva come sempre, non ci sta e risponde colpo su colpo:

Più che dissociarsi Gucci dovrebbe ringraziarci, per aver documentato e denunciato quello che avrebbero dovuto fare i loro ispettori.
E’ gravissima e lesiva della libertà di espressione e di denuncia la dichiarazione di Gucci «accordarsi a insaputa di Gucci con laboratori che utilizzano manodopera cinese a basso costo e non in regola - sabotando i sistemi di controllo in essere”.
E’ uno stravolgimento della realtà visto che Report non ha affatto “sabotato” ma “osservato” il metodo delle ispezioni “farsa”.
Noi abbiamo fatto solo il nostro mestiere. La truffa semmai è ai danni degli artigiani, del Made in Italy, della legalità e dei clienti. Forse non hanno compreso che la SA8000 (la certificazione di responsabilità sociale di cui si fregiano) deve decidere se continuare a certificarli. Che sia un marchio del lusso a mettere in seria discussione la validità della SA8000 è paradossale (ricordiamo che la Nike fu scoperta a far cucire palloni da bambini, ma costavano un dollaro).
Cosa poi intenda per laboratori “selezionati” dovrebbe spiegarcelo, visto che li abbiamo filmati (appunto) con le telecamere nascoste e monitorati per mesi.

E ancora:

Sul tema dei controlli a Gucci è stata fatta richiesta scritta di intervista, ma hanno preferito declinare. La sottoscritta ha anche posto una domanda pertinente, sempre per iscritto: «A quanto ammonta il Made in Italy che viene fatturato in Italia e quanto esportato alla Luxury Goods (Svizzera) o comunque all’estero». La loro risposta è stata: «Il dato non è pubblico». Certo è meglio che non si sappia fino a che punto convenga all’Italia essere una “colonia” francese che non deve andare in Cina per produrre a basso costo il prestigioso “Made in Italy” grazie ai mancati controlli e ai prezzi sotto il limite che stanno riducendo alla fame i “maestri artigiani”, come li pubblicizza Gucci.