«Miseria e nobiltà», eterna metafora della condizione umana

“Miseria e nobiltà”, eterna metafora della condizione umana
Fino al 10 gennaio al Teatro Parioli “Peppino De Filippo” di Roma, Luigi De Filippo è don Felice Sciosciammocca nella celebre commedia di Eduardo Scarpetta.
Di Alessandra Stoppini
“Sì, pateto, che ha passato tanta guaje, fra la miseria vera e la falsa nobiltà!”. È la frase finale di don Felice Sciosciammocca al termine del secondo atto che precede la chiusura del sipario della commedia capolavoro del teatro comico scritta nel 1887 in napoletano da Eduardo Scarpetta, il più importante attore e autore del teatro partenopeo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, capostipite della dinastia teatrale degli Scarpetta-De Filippo.
Luigi De Filippo nel teatro dedicato a suo padre Peppino, riprende questa storica commedia nella quale è regista e protagonista, nelle vesti ora dimesse ora luccicanti di don Felice, con lo scopo di rendere omaggio a Eduardo Scarpetta, che proprio qui aveva compiuto la sua riforma, con l’invenzione e la consacrazione del personaggio di don Felice Sciosciammocca, prototipo del napoletano piccolo borghese, che sostituisce Pulcinella, maschera d’altri tempi.
“Ciò che ho voluto sottolineare è la fame e la miseria, di cui si racconta con comicità nella commedia che sono l’anticipazione della disperata emigrazione delle genti del Sud Italia verso le Americhe in cerca di lavoro”, ha sottolineato De Filippo in una recente intervista. Ed è, infatti, la fame, la protagonista di Miseria e nobiltà, “I tengo famma, i tengo famma!”, che non è solo fame di cibo ma di lavoro, di sopravvivenza e di giustizia, una privazione purtroppo sempre attuale, allora come adesso. Emblematico in questo senso il finale del primo atto, reso famoso dal film omonimo di Mario Mattoli del 1954 con Totò: tutti in scena siedono avviliti, perché ogni tentativo di procurarsi da mangiare è fallito; improvvisamente sulle note del Bolero di Ravel avanzano uno sguattero e un facchino che portano una grande stufa. Senza parlare, si avvicinano alla tavola, e posano a terra, ai piedi di Felice, la stufa. Il facchino va via ma poi torna con due fiaschi di vino. Lo sguattero scopre la stufa, tira fuori una grossa zuppiera di maccheroni, poi dei polli, del pesce, due grossi pezzi di pane, tovaglioli e posate, mentre il facchino pone sulla tavola i due fiaschi di vino. Lo sguattero e lo stesso facchino riprendono poi la stufa vuota, arrivano sotto la porta in fondo alla scena, si voltano salutando con un cenno della testa, e vanno via. Pasquale, Concetta, Pupella, Luisella e Felice si avvicinano alla tavola. Poi si alzano di botto, e, tutti in piedi intorno alla tavola, si slanciano con grande avidità sui maccheroni fumanti, divorandoli e abbracciandoli con le mani. La fame è saziata.
La storia è semplice: il giovane nobile Eugenio ama la ballerina Gemma, figlia di Gaetano, un cuoco arricchito. Il ragazzo è però ostacolato dal padre, il marchese Favetti, che è contro il matrimonio del figlio perché Gemma è figlia di un cuoco. Eugenio si rivolge quindi allo scrivano Felice per trovare una soluzione. Felice e Pasquale, altro spiantato, con le rispettive famiglie, s’introdurranno a casa del cuoco fingendosi i parenti nobili di Eugenio. La situazione s’ingarbuglia poiché anche il vero Marchese Favetti è innamorato della ragazza, al punto di frequentarne la casa sotto le mentite spoglie di Don Bebè. Il figlio, che lo aveva scoperto e minacciato di rivelare la verità, lo costringerà a dare il suo consenso per le nozze. “Va bene, per il piacere che ho maritata mia figlia, vi sposerete anche voi”.
La commedia è molto comica ma anche sottilmente amara, a detta della critica “degna della firma di Moliére”. Luigi De Filippo che l’ha adattata, è un magnifico interprete di don Felice attorniato dai bravissimi attori che fanno parte della sua Compagnia di Teatro. “La tradizione è il nostro passato, ma è un passato che insegna”, è il motto del grande attore napoletano, il quale superata la soglia degli ottant’anni, già da diverso tempo con la moglie Laura ha fatto rivivere il Teatro Parioli, assumendone la direzione artistica, nel nome del padre. È, infatti, una maschera di Pulcinella che testimonia una precisa identità culturale e di appartenenza, il marchio del Teatro che espone nel foyer alcune gigantografie di fotografie in bianco e nero che ritraggono i fratelli De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina.
“Desidero fare di questo teatro un Centro culturale teatrale napoletano. Vorrei realizzare un teatro semistabile napoletano offrendo al pubblico romano le più divertenti e rappresentative opere del teatro napoletano (commedie di mio nonno Eduardo Scarpetta, di mio padre Peppino e mie) e quelle dei suoi autori contemporanei, oltre a produzioni della scena nazionale di teatro, operetta, balletto e musica”, ci aveva confidato Luigi De Filippo nel 2011 nell’intervista che avevamo fatto alcuni giorni prima si alzasse il sipario sulla scena del Teatro Parioli “Peppino De Filippo”.
Un desiderio mantenuto, si consiglia di non perdere questo spettacolo, raro divertimento nel panorama del nostro teatro contemporaneo, eterna metafora della condizione umana, giacché “la vera miseria è la falsa nobilità”.

Per informazioni:
Teatro Parioli Peppino De Filippo: http://www.teatropariolipeppinodefilippo.it/