Vittorio Feltri Vs Gucci: uno sconcertante ritratto del razzismo e dell’omofobia italiani

Vittorio Feltri su Libero Quotidiano si scaglia su una foto pubblicitaria della maison di Gucci. Il direttore senza mezzi termini si lascia andare a considerazioni razziste e omofobe che lasciano davvero sconcertati.

Sconcerto. Quello che si prova a leggere l’articolo di Vittorio Feltri è lo sconcerto. Ed è lo stesso sconcerto espresso su Libero dal direttore di fronte ad una foto pubblicitaria proposta dalla blasonata maison di moda Gucci.

Sfoglio come sempre il Corriere della Sera e quando arrivo all’ultima pagina, la numero sessanta, trasalisco. Mi viene un colpo apoplettico. Vi è riprodotta la fotografia immensa di un signore di pelle nera, seduto su una bella sedia davanti a una libreria che, almeno a prima vista, è promettente.
Guardo meglio per capire di cosa si tratta e scopro con stupore che è la pubblicità di Gucci, un marchio importante, tra i più apprezzati del nostro Paese rinomato per la moda, fonte inesauribile di reddito.

Di seguito la sconcertante foto che ha tolto il sonno a Feltri.

Già dall’attacco fa sorridere il fatto che il direttore di un importante quotidiano (che abbia idee discutibili è un altro paio di maniche n.d.r.) si faccia venire un colpo apoplettico per una pubblicità. Non è casuale che la descrizione della sintomatologia preceda puntualmente un’altra descrizione: quella dell’etnia del modello.

Un uomo nero. Da notare che Feltri non si è lasciato sfuggire l’occasione di descrivere il colore della pelle del ragazzo nelle prime tre righe, come se fosse importante che un modello sia bianco, nero o giallo.

Ma andiamo avanti: il commento dell’immagine prosegue con l’utilizzo di aggettivi forse più adatti ad una scena del crimine che ad una foto di moda: disgustosa, repellente, ributtante. Sarebbe forse il caso di fare un ripasso degli aggettivi, visto che nemmeno per un efferato assassino si arriva ad usare certa terminologia.

Traspare quasi che Feltri abbia dei problemi con le persone di colore e invece, coupe de théatre, fa subito marcia indietro, rassicurando i lettori e scrivendo “Chi se ne frega se il messaggero scelto dal fotografo è un africano o un afroamericano”. Tiriamo un sospiro di sollievo. No signori. No.

Viene subito aggiunta una postilla: “Se anche fossimo razzisti, fingeremmo di non esserlo per non incorrere nella sanzioni di legge e nei provvedimenti disciplinari dell’Ordine dei giornalisti.”

È evidente dunque, che, se non ci fossero sanzioni non ci sarebbe nulla di male se un bianchissimo italiano si senta in qualche modo offeso dal modello di colore, selvaggio e cattivo.

Di male in peggio

Basterebbero queste poche righe a indignare e sconcertare qualsiasi persona dotata di buon senso ma, non essendoci limite al peggio, si prosegue la descrizione passando in rassegna l’abbigliamento del ragazzo: un tripudio di offese, razzismo e omofobia della peggior specie.

Ciò che impressiona è altro: l’orrendo abbigliamento inflitto all’ uomo utilizzato quale indossatore, offendendolo. Vi prego, cari lettori, di osservare l’istantanea e di esaminare non tanto il volto del suddetto signore quanto il vestito che costui sfoggia con malcelato orgoglio. Un completo, giacca e pantaloni, a quadri di colori azzardati: blu e verde, che sortiscono un effetto cromatico censurabile.

Camicia bianca e cravatta a righe, in cui spicca la tinta arancione. Un pugno nell’occhio. Le calze poi sono rivoltanti: rosa pesco. Un autentico vomitivo. Le scarpe infine sono comiche. Sembrano quelle di un prete gay ottocentesco. L’insieme è ributtante, aggravato da anelli enormi che l’uomo esibisce sulla mano destra quasi che egli fosse il capo di una tribù del centro Katanga, denominata vacaputanga, come recita una canzone nota negli anni Settanta.

Da notare come Feltri inviti i suoi lettori, che evidentemente condividono le sue idee, a non soffermarsi troppo sul colore della pelle, probabilmente già di per sé sufficiente a far arricciare il naso a qualcuno, quanto sull’abbigliamento definito addirittura da vomito.

Poi, non contento, sfoderando il suo background gonfio di cultura machista e maschilista, si indigna per le calze rosa pesco e le scarpe, forse troppo originali e leziose per essere indossate da un vero maschio latino.
Come se un paio di Church’s fosse il parametro per stabilire l’eterosessualità di un uomo e come se quest’ultima fosse un valore aggiunto da contrapporre all’omosessualità, vista come vizietto curioso da deridere con gli amici al bar di periferia.

Si, bar di periferia, perché i toni di questo articolo, sebbene scritto con un ottimo italiano, sono solo una volgare accozzaglia di offese gratuite. Non vi è critica. Non vi è la volontà di esprimere un’opinione di gusto su un vestito ma è solo un pretesto per riaffermare (dis)valori facenti capo ad una società alla deriva, una società violenta, razzista, pruriginosa, bigotta.

Una società stantìa saldamente ancorata a ipocriti dogmi, puntualmente disattesi da quegli stessi predicatori, che, saliti sul pulpito della moralità, si permettono il lusso di definire ciò che è giusto o sbagliato sulla pelle di altri esseri umani, deridendoli e mettendoli alla berlina.

Dimenticando che il diritto di dire la propria (per quanto offendere non sia una diritto) di questa buon costume 2.0 finisce dove comincia la libertà di qualsiasi essere umano di essere ciò che è, di vestirsi come meglio crede. Dimenticando che Gucci non ha chiesto al direttore di Libero “di indossare i discutibili completi a quadri, le calze rosa pesco e le scarpette da gay.” Per fortuna.

Se Feltri non ama le calze rosa pèsco è liberissimo di indossare i suoi impeccabili abiti blu ma questo non gli consente e non deve essergli consentito di insultare gratuitamente un’azienda che coraggiosamente ha fatto della diversità e della libertà il suo punto di forza.

E ancora, nel 2017, non si può leggere pubblicamente che un ragazzo di colore con indosso degli anelli, sembri un capo tribù, come se poi esserlo sia una discriminante, scimmiottando addirittura parole dal sapore africano da guerra coloniale. Forse per Feltri non devono essere così lontani i tempi in cui si cantava Faccetta nera, forse per lui e quelli come lui erano davvero tempi migliori.

O Forse la chiusa dell’articolo di Libero riassume i reali intenti di tutto il discorso, malcelati dietro la scusa della bruttezza degli abiti:

Oppure, ed è più probabile, la scelta dell’uomo nero e del costume di cui questi è dotato, risponde all’esigenza di piacere a coloro che predicano con passione l’accoglienza, l’integrazione, l’ospitalità. Nel caso, la moda avrebbe rinunciato all’estetica e si sarebbe buttata sull’etica stracciona del buonismo progressista che predilige l’immigrazione selvaggia. Basta dirlo. Eliminiamo Gucci dal guardaroba.

Eccola qui, come un cavolo a merenda, la weltaschaung di tutto. Non pago dell’omofobia, del maschilismo becero di cui è intriso l’articolo, Feltri doveva necessariamente aggiungere la stilettata razzista sull’immigrazione per saziare quei cittadini affamati di luoghi comuni. Ma cosa c’entra una pubblicità di moda con il problema immigrazione? Nulla. Assolutamente nulla. Una scusa come un’altra per fomentare odio e aggiungersi alla coltre dei Savonarola cibernetici.

Una cosa è certa: non saranno né Libero, né Vittorio Feltri a mettere in crisi le vendite delle creazioni Gucci. Per fortuna.